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«Carrara è una città di marmo», è forte e saldo l’affetto di Gualtiero Passani per la sua città di origine; madre, a volte matrigna, dove egli ha compiuto tutto il suo percorso scolastico e di studio fino al diploma all'Accademia di Belle Arti e che ha visto l'inizio della sua attività artistica.

«Pur essendo una città di marmo – precisa Passani -è una città artisticamente provveduta». «I carraresi hanno il buono e il cattivo, nel loro gran cuore: perché hanno cuore i carraresi, lo riconosco. Inconsciamente io il mio paese credo di averlo in qualche modo odiato, forse perché non mi ha dato quello che io avrei creduto di meritare. Ho sbagliato». Tuttavia Passani, al di là di ogni recriminazione, al di là di questo irruente sentimento di amore-odio, in realtà, manifesta un affetto speciale per la sua città di origine: riconosce di aver assimilato molto dalla sua anima forte e generosa e, con malcelato orgoglio, la confronta con la rivale di sempre: Massa.

Precisa Passani: «I carraresi hanno un carattere forte, anche se più chiuso rispetto ai massesi»; e qui si abbandona, con una misurata vena di campanilismo, ad una esaltazione del carattere forte ed operoso dei carraresi in contrapposizione ad una certa indolenza dei massesi. «Il massese è più “messicano” – sottolinea Passani – ama stare più al sole. Il carrarese, è caparbio, solido come il marmo delle Apuane di cui la città si è da sempre nutrita, è buono, altruista, ma abituato a dire pane al pane e vino al vino». E precisa: «Il massese è caratterialmente diverso, tutta un'altra cosa anche nel parlare», poi sorridendo ironicamente, aggiunge di conoscere molti massesi perbene, cancellando ogni ipotetica traccia di ruggine ed ogni posa di rivalità.

Ovviamente tutte queste considerazioni sono fatte da Passani con un profondo senso dell’ironia e con grande, genuina comprensione per un campanilismo, caratteristico di un mondo più semplice e più umano, verso il quale egli lascia intravedere una nota di nostalgia, specialmente quando ricollega il tutto alla serenità di una vita da adolescente, in una famiglia unita che lo ha sempre sostenuto, fin dai primi passi del suo percorso artistico.

Passani parla dei rapporti con il padre Fernando, morto quando egli aveva 35 anni, della dolcezza della madre Natalia a cui era particolarmente legato e che sempre lo ha apprezzato ed incoraggiato, essendo la prima estimatrice del figlio artista.

E quando Passani ricorda la sua famiglia ne sottolinea la solidità, l’onestà, il decoro, la precisione nel lavoro, l’attenzione reciproca che univa tutti i componenti, senza trattenersi dal confrontarla con tante situazioni di sfascio dei giorni nostri.

Poi narra un aneddoto e nella narrazione traspare forte la nostalgia degli affetti. «Mia madre non sapeva dipingere, neppure sapeva tenere la matita in mano» dice con una vena di dolce ironia. Poi aggiunge: «Ero solito, appena tornato da scuola, specialmente nei primi anni di insegnamento, mi infilavo nel mio studio e dipingevo, questa, del resto, è un'abitudine che ho sempre conservato. Un giorno dipinsi un paesaggio, con delle case, poi, dovendo rientrare a scuola, salutai mia madre dicendole di chiudere tutto e lasciare tutto come stava. Al mio ritorno vidi che al dipinto era stato aggiunto un albero, o meglio, una cosa che doveva sembrare un albero. Chiesi a mia madre se l’avesse disegnato lei, ma essa in un primo momento negò; io comunque, le dissi di lasciare stare i miei lavori ed allora sbottò: “guarda che quella casa lì senza un albero a me non piaceva”»

«Mio padre invece sapeva dipingere e spesso chiedeva il mio parere sui suoi lavori. C’era fra me e lui un filo diretto, emozionalmente ci somigliavamo molto ed eravamo molto affiatati».

Tutto il percorso formativo di Gualtiero Passani si è svolto a Carrara, dalle scuole elementari fino agli studi artistici presso la prestigiosa Accademia locale sotto la guida di docenti di ottimo livello. Qui egli ha potuto affinare le sue doti innate, approfondire la sua conoscenza di correnti e di stili, che ha saputo rielaborare con personalissimo gusto e con spiccata sensibilità.

Il suo avvicinamento all’arte, non si deve a sollecitazioni esterne ma è stato un crescendo intimo, una cosa che ha conquistato il suo animo, si premura di sottolineare Passani, e rievoca il ricordo di un suo maestro di quinta elementare che già aveva intuito ed apprezzato le sue pur embrionali capacità.

«Io amavo disegnare – dice con impeto, con un fluire di parole che riescono a trasmettere la sua passione - per me era spontaneo, disegnavo su carta, a matita, dovunque capitasse».

Nel primo periodo dell’attività artistica, Passani si è orientato al figurativo di gusto impressionista. Sentendosi attratto dalla figura; ha sempre rappresentato i vari personaggi anteponendo l'interiorità emotiva del soggetto, alla descrizione realistica, facendone uscire l'animo e i sentimenti più intimi.

Per questa stessa ragione non si è mai dedicato, tranne rarissimi casi di cui si parlerà, al ritratto realista.

«Il ritratto no» dice con veemenza. «Il ritratto è una cosa statica ferma, non ti commuove. Per me il ritratto è fotografia. Col ritratto, avrei potuto guadagnare qualcosa. Allora ero giovane e qualche soldino avrebbe fatto comodo e avevo trovato persone che avrebbero voluto farsi ritrarre; mi chiamavano, ma io ho sempre rifiutato. Il ritratto non mi soddisfa, se la figura viene interpretata, sei tu che la crei, sei tu che le dai quei lineamenti e quelle forme, che sono suggerite dal soggetto stesso e che da esso emanano come un fluido invisibile, solo così la rappresentazione della figura dà soddisfazione. Riesci a risolvere il dipinto come un musicista quando fa l'adattamento di un brano musicale, sgorga dall’animo; ma quando si parla di un ritratto, le cose cambiano».

«Conobbi un signore molto ricco di Carrara, proprietario di molti negozi ben avviati, il quale, poco dopo essersi sposato, mi chiamò (siamo intorno agli anni 1953-54) e mi chiese un ritratto di sua moglie. Mi suggerì anche la posa nella quale avrebbe voluto che fosse ritratta: una posa elegante, stesa su di un divano, alla Paolina Borghese. Io ebbi molte perplessità, che egli avvertì subito».

«Feci comunque questo ritratto, lo coprii con un lenzuolo dandogli il tempo di asciugare e a questo punto accadde un fatto curioso, quasi comico. Era il periodo della benedizione delle case ed il prete, arrivato per la benedizione, sapendo che io dipingevo volle entrare anche nel mio studio per benedirlo ed incuriosito mi chiese cosa si celasse sotto il lenzuolo. Io cercai di deviare l’attenzione del sacerdote, ma egli insisteva. Ora devo dire che la signora, stesa sul divano aveva la gonna un po’ risalita e le gambe erano quindi un po’ scoperte sopra il ginocchio. Il prete tirò via il lenzuolo e, ricordo ancora la scena, mise una mano sugli occhi del chierichetto che lo accompagnava ed esclamò: “Che belle gambe!” Ricordo esattamente questa esclamazione Che belle gambe. Non chiese chi fosse la persona ritratta né fece altre domande».

«Un mio professore all’accademia, il Prof. Marchetti, fece una sua mostra a Siena. Un giorno mi disse che gli avrebbe fatto piacere che io andassi a vederla ed esprimessi un mio giudizio. Io mi schermii:” Ma Professore, come posso io dare un giudizio sulla sua opera?”»

Gualtiero Passani è un vulcano inarrestabile nel ricordare gli aneddoti che hanno costellato la sua vita di artista: «Il Professor Marchetti insistette molto. Qualche giorno dopo parlando con colui che mi aveva commissionato il ritratto della moglie, accennai a questo fatto ed egli si offrì di accompagnarmi con la sua auto questa fu la mia rovina, perché questo signore conobbe il mio Professore e questi si accorse che aveva a che fare con una persona danarosa; poco a poco prese il mio posto nelle grazie di quel signore e toccò a lui fare un nuovo ritratto, mentre quello che avevo fatto io rimase a me, forse anche a causa delle gambe , “troppo belle”».

«Un giorno però – prosegue Passani - ebbi modo di rifarmi. Il prof. Marchetti aveva esposto all'Accademia alcuni suoi quadri che rappresentavano degli ulivi, io, memore di quella che era stata una sua scorrettezza, ritenni giusto criticarlo dicendo: “Lei abbonda troppo col viola, l’ulivo è argenteo”. Aggiunsi: “specialmente quando si muovono le foglie, sotto il raggio del sole c’è uno scricchiolio di colori, bianchi argenti, grigi. Ci rimase male! E tronfio della sua autorità, mi liquidò con un “Tu non sai quello che dici!”. E così mi giocai la sauamicizia. Ma forse in questo caso, non persi nulla».

Un altro caso in cui la schiettezza diretta di Passani ha colpito ancora: «Capitò con Arturo Dazzi (autore fra l'altro della statua del Cardinale De Luca, che si può ammirare nel Palazzo di Giustizia di Roma). Conoscevo un giornalista del posto che era suo amico. Questi, un giorno disse al Maestro che mi avrebbe portato a conoscerlo presentandomi a lui come un giovane talento».

«Capita sovente – riflette Passani - che intorno a personaggi illustri, gravitino elementi mediocri, forti solo del loro opportunismo».

«Arrivato nella sua villa ed essendo a conoscenza dell'appoggio che il Maestro dava ad un mediocre pittore fiorentino, noto per i vari voltafaccia di cui era stato protagonista, non trovai niente di meglio da fare che sottolineare lo scarso valore del suo protetto. La mia intenzione, in buona fede, era quella di mettere in guardia l'artista che stimavo, dal tipo poco affidabile che avrebbe potuto danneggiarlo».

«La reazione di Dazzi non fu esattamente quella che io mi aspettavo: questi in modo assai adirato, se ne uscì con un: “Portami via questa serpe”, rivolto al mio accompagnatore, il quale ovviamente al ritorno, fu prodigo di improperi e non mancò di accusarmi di scarsa riconoscenza. In un colpo solo, mi ero giocato l'amicizia del giornalista e il contatto col Maestro».

Vi sono alcune connotazioni del carattere che accomunano tutti coloro che sono nati all’ombra delle Apuane ed in particolare i carraresi: si tratta di uno strano, “sottile e radicato “sentimento che potremmo definire anarchico, che , in fondo,senza perderci in complesse analisi antropologiche o ideologiche, si potrebbe semplicemente definire, come il desiderio di non farsi calpestare da nessuno, di restare orgogliosamente liberi. Un sano proposito di farcela con le proprie forze, senza battere la strada dell’opportunismo, né cedere acompromessi.

Gualtiero Passani, che parla, con modestia, sì, ma anche senza peli sulla lingua, con una giusta dose di orgoglio e con un carattere forte come il marmo, sicuramente non ha mai ceduto né preso facili scorciatoie.

Eppure la vita non gli ha sempre riserbato serenità e facili successi. Infatti, pur se ancora adolescente, Gualtiero Passani visse direttamente e dolorosamente il dramma della guerra. Il clima di terrore che caratterizzava l’Italia dopo l’otto settembre del 1943 è ancora più cupo e insistente proprio a Carrara, proprio come nelle altre località che si che si trovavano a ridosso della linea Gotica.

All’età di 17 anni Gualtiero Passani, per una pura sfortunata casualità, venne arrestato dai tedeschi e deportato in un campo di concentramento, prima in Austria e poi In Ungheria.

La città era occupata ma la vita sembrava scorrere normalmente, tuttavia l’atmosfera che ben ricorda Passani era caratterizzata da un silenzio glaciale. «Chi ha vissuto quell’atmosfera, la sente ancora oggi: c’era un silenzio tetro, direi un silenzio che ti posava un fiato freddo sul collo. Si viveva una desolazione, un timore diffuso. Le persone si nascondevano nelle case; solo pochi facevano capolino fuori per vedere ciò che accadeva, ma c’era, ripeto, un terrore diffuso. Le strade poi erano piene di soldati che con la loro presenza facevano capire chi comandava. Un giorno uscii dall’Accademia per tornarmene a casa, abitavo allora in un palazzo all’angolo con via Roma, arrivato in casa parlai con i miei genitori dell’atmosfera che regnava in città ed essi mi ammonirono a non parlare a voce alta. Rimasi stupito e sottolineai il fatto che eravamo al secondo piano e quindi non poteva sentirci nessuno, ma sia mia madre, che mio padre insistettero affinché stessi attento, mio padre addirittura mi consigliò di non andare neppure più a lezione. Mentre avveniva questa conversazione, mi affacciai ad una piccola finestra. Sembra incredibile a dirsi: davanti casa, dall’altro lato della strada, c’erano due soldati tedeschi, che guardavano proprio nella mia direzione. Io richiusi subito la piccola finestra, ma probabilmente il mio gesto fu troppo repentino, ormai mi avevano visto e sospettando qualcosa, vennero in casa, bussarono alla porta, mio padre andò ad aprire e come è comprensibile, si spaventò. Facevano veramente spavento, solo chi ha vissuto quelle vicende può capirlo completamente. Mio padre, alla domanda chi fosse quel giovane alla finestra, mi chiamò ed i soldati senza tanti complimenti, mi ordinarono: “Tu venire con noi”. Io chiesi il motivo, ma loro ripetettero l’ordine. Indescrivibile la disperazione dei miei genitori nel veder portare via un figlio di neppure 17 anni. Non sapendo più a che santo votarsi, come ultima risorsa, mio padre mi disse di mostrare ai due militari la tessera del Fascio che, come tutti, avevo in tasca. Io mostrai ai due soldati la tessera che aveva la testa di Mussolini in copertina. Niente di più sbagliato, uno dei due ci sputò sopra e la gettò per terra. Quindi mi portarono in un campo di prigionia a Marina di Carrara e alla sera, un treno merci mi trasportò con altri malcapitati a Vienna».

«In questa città mi misero a lavorare come operaio in una fabbrica di ruote per gli aerei Stukas. La sera andavamo a dormire in un campo di prigionia ed al mattino venivamo presi, inquadrati e portati in fabbrica. Tra i prigionieri c’era anche uno di nazionalità francese che aveva l'incarico di dipingere delle macchine e scrivere i cartelli degli avvisi proibito fumare, attenzione, chiudere la porta, e simili. Un bel giorno questo francese riuscì a fuggire grazie all’aiuto di una donna tedesca. Allora venne da me uno dei responsabili della fabbrica, un ingegnere, che, in un italiano perfetto, mi chiese: “tu hai frequentato una scuola d’arte?” Alla mia risposta affermativa mi ordinò di prendere il posto del francese di fare quello che faceva lui. Allora mi recai in una specie di studio dove si trovava tutto il materiale per dipingere, questo ingegnere, mi porse un cartello in lamiera e mi ordinò di scriverci sopra “Achtung”».

«Mi misi diligentemente a disegnare questa parola e quando i responsabili della fabbrica videro il cartello restarono ammirati ed increduli. Per la verità nessuno voleva credere che ne fossi io l’autore. “Non puoi averlo scritto tu – mi dicevano – sei troppo giovane”. Io feci di tutto per far capire loro che effettivamente ero io l’autore 'dell’opera', ma si ostinavano a non credermi. Alla fine qualcuno mi mise in mano una cartello nuovo e mi impose di scrivere la stessa parola una seconda volta, di fronte a loro. Terminato che ebbi di scrivere la parola per la seconda volta, fu enorme l’ammirazione di tutti». Questo, davvero, si può considerare il primo riconoscimento artistico per il giovane Passani.

Questo fatto e la stima conquistata sul campo, contribuì a rendergli la prigionia un po’ meno pesante, anche se poi precisa che tutto ciò, in realtà, non gli ha evitato di doversi confrontare anche con la durezza e la barbarie della guerra; ricorda con orrore gli omicidi gratuiti, le barbarie a cui ha dovuto, suo malgrado, assistere. Alcune esperienze rimaste indelebilmente impresse nella sua mente, saranno poi fonte di ispirazione per alcune sue opere future.

Alla fine della guerra finalmente poté riprendere gli studi e quindi, verso il 1947, iniziare serenamente la sua attività artistica, dedicandosi interamente alla pittura.

Arrivarono così le prime piccole e poi le grandi gratificazioni. Passani ne ricorda una: «C’era una persona che voleva acquistare uno dei miei quadri e dopo aver visionato alcuni paesaggi, fu attratto da un quadro che rappresentava la testai di una pazza. Si trattava di un volto reso brutto e sfigurato dalla pazzia, fino ad apparire angosciante all'osservatore.  Nel contempo promanava da essa una forza di rivalsa e ribellione verso il mondo. Un carrarino avrebbe detto, per sintetizzare, che si trattava di una figura anarchica. Era forse il prodotto di un mio stato d’animo di allora che era particolarmente risentito verso tutti coloro che, anche nella mia città, sfruttando il difficile momento della rinascita post-bellica, cercavano di occupare tutti i posti di rilievo senza nessun pudore».

«Questo cliente scelse quel dipinto e lo comperò. Dopo circa una settimana lo incontro per strada, mi ferma e mi dice: ”Purtroppo quel quadro te lo devo restituire”. Alla mia richiesta del motivo di una simile decisione, egli disse  non senza un pizzico di imbarazzo, ma in modo molto esplicito: ”Io ho appeso il quadro nel mio studio, ma la donna delle pulizie, mi ha dato un ultimatum. O tolgo il quadro o lei non viene più a fare il suo servizio poiché resta impressionata da quella figura”».

La ragione di tutto ciò è fin troppo evidente: Passani aveva dato al soggetto del quadro tutta la carica emotiva che sentiva, aveva trasformato il soggetto dandogli una forte espressione interiore, che se di per sé si può considerare gratificante per l'artista, certamente non dissuase il cliente dal pretenderne la sostituzione, con un “più tranquillo” paesaggio.

Ritornando con la mente agli anni della sua gioventù, Passani ricorda un compagno di scuola, anch'egli pittore (siamo all’inizio degli anni Cinquanta); un certo Talozzi di Viareggio, suo coetaneo, il quale, vantandone la conoscenza, gli offrì la possibilità di incontrare il famoso pittore Moses Levy

. Per dare una maggiore valenza a questo incontro, gli consigliò di portare qualche sua opera per sottoporla alla visione e all'eventuale giudizio del Maestro.

Racconta Passani: «Un giorno andammo a Viareggio a trovare questo artista. Levy era solito lavorare all'aria aperta, aveva una specie di studiolo, ricavato in un casotto sulla spiaggia; se ne stava all’esterno di questo e riproduceva dal vero. Il mio amico mi presentò al maestro, il quale si dimostrò molto cordiale nei nostri confronti. Io, in leggero imbarazzo nel trovarmi di fronte questo personaggio e scusandomi per il disturbo, gli chiesi di esaminare un paio di lavori che avevo portato con me, che rappresentavano rispettivamente un paesaggio ed una marina, entrambi di gusto impressionista. Moses Levy li collocò su di un patino lì accanto, si allontanò di qualche passo e si mise ad osservarli con attenzione alla luce del mattino. Esaminava le mie opere in silenzio ed io stavo in ansia in attesa del giudizio. Dopo poco, fece una decisa considerazione; scartò il paesaggio e soffermandosi poi sulla marina sbottò: “Ho l'impressione che tu l'abbia copiata”. Io replicai, negando con calore di aver copiato il quadro, ma Levy insisteva facendo appello a tutta la sua autorevolezza. Poi mi spiegò perché sosteneva questa sua tesi: “Vedi – mi disse – hai fatto un cielo che vorrei saper fare io, però non ci riesco. Tu mi devi dire gli ingredienti, i colori e la tecnica che hai usato”. Gli risposi, banalmente, che avevo usato il celeste, ma egli ribadì che dovevo aver usato più colori, “Perché – aggiunse – quel cielo è immenso”. In quel momento, e in considerazione della persona che aveva pronunciato quel giudizio, mi sentii estremamente gratificato».

E qui Passani fa un passo indietro, tornando con la memoria ai suoi ultimi anni di Accademia, quando iniziò la sua attività artistica partendo dall’acquerello, tecnica nella quale ebbe un grande maestro in Carlo Crettli; professore ordinario di acquerello all'Accademia di Carrara, a sua volta, allievo di Beltrame. Racconta Passani: «Fra tutti gli allievi (eravamo in 9 all’ultimo anno), io solo ebbi il permesso di uscire durante la lezione e andare in giro a riprodurre il soggetto che avessi voluto».

«In occasione di una di queste lezioni, in compagnia della mia tavoletta con incollata la speciale carta per acquerello; nel mio vagabondare, arrivai in prossimità di una vecchia stazione abbandonata, sedetti su un blocco di marmo e cominciai a lavorare. Poco distante c’era un gruppo di monelli che giocavano a palla e strillavano. Io quando lavoro, allora come adesso, sono solito estraniarmi completamente dal mondo che mi circonda e quindi non detti loro nessuna importanza. Totalmente assorto in quello che stavo facendo, mi resi conto, della loro presenza, solo al momento dell'impatto di un pomodoro maturo, lanciato dai discoli, che andò a spiccicarsi sul mio disegno, proprio all'altezza del cielo. Cercando di ripulire il possibile e non riuscendoci, notai, mio malgrado, che questa parte si era impregnata del colore rossastro del pomodoro. Con non poca preoccupazione, essendo terminato il tempo a disposizione, rientrai. Tornato in Accademia il Professore chiese di vedere il mio lavoro; lo guardò per un po’ di tempo e poi mi disse: “Io non ti capisco; hai fatto una parte abbastanza di maniera e poi hai fatto questo stupendo cielo al tramonto. Dove l’hai preso, visto che è mattina?”»

Ovviamente Passani non poteva raccontare del pomodoro; accampò qualche vaga giustificazione e si lasciò gratificare dal suo maestro, senza averne, in buona parte, merito.

L’ acquerello è una costante nell'espressione artistica di Passani, ha dato a questa tecnica, da lui spesso usata, una nota personale estremamente caratterizzata e con una forte carica emotiva, ricordando con pochi tratti, momenti realmente vissuti. «In Italia - sostiene con buon fondamento – l'acquerello non è molto apprezzato, al contrario di quanto accade invece in altri Paesi, Inghilterra in testa, dove è maggiormente sentito e trova accoglienza al pari del quadro ad olio».

A tale proposito, tornando indietro nel tempo, ricorda: «Durante il Ventennio fascista noi studenti, venivamo inviati a Firenze insieme ad allievi di Accademie di altre città per partecipare ai Ludi iuveniles della cultura e dell’arte. Per la categoria acquerello eravamo stati selezionati in due, provenienti dall'Accademia di Carrara, dove c’era solo la scuola di acquerello, e non quella di pittura».

«Non potendo competere per forza cromatica con i soggetti che i pittori ad olio potevano dipingere, pur impegnandoci a fondo, tornammo da Firenze un po' delusi: la produzione di altre Accademie era molto più “rumorosa” e più in linea con le idee e gli indirizzi artistici del tempo di quanto per noi fosse possibile fare e rendere con la tecnica dell’acquerello. Ovviamente fummo redarguiti a dovere. Il Direttore dell'Accademia Ugo Prayer, non comprendendo l'oggettiva difficoltà di questo impari confronto, ci rimbrottò pesantemente e fummo chiamati anarchici. Io feci di tutto per cercare di spiegare che si trattava di una partita impari contro i grandi quadri ad olio, sostenendo la bontà del lavoro che avevamo svolto».

Nel dopoguerra, parallelamente alla forte volontà di rinascita morale, culturale ed economica, si registra anche un risveglio in campo artistico col fiorire di nuove energie e di rinnovata volontà di sperimentare.

Proprio a proposito di questo ritrovato vigore artistico Passani fa notare come proprio alla fine della guerra «l’artista, pur restando sempre e comunque inserito nell’ambito culturale e sociale in cui si trova a vivere e ad operare e del quale ha assorbito i temi, le tendenze e le contraddizioni, cerca, ora più che mai, di esplorare nuovi orizzonti, sia dal punto di vista delle tecniche, che degli stili.

«L’Artista, stanco di tutta una tradizione fondata sul classicismo, a volte stantio, anche per reazione alla cupa tragedia della guerra, si immagina un mondo fatto di colori, di materiali diversi; di carta, ferro, legno, con l’intento di realizzare qualcosa di nuovo, di strano, di diverso rispetto alla tradizione. C’è quindi una sinergia con il critico sensibile a queste problematiche il quale osserva, scrive e fa da tramite tra l’artista ed il gusto del pubblico, contribuendo così ad aprire le porte delle grandi gallerie e ad offrire le giuste chiavi di lettura alle varie espressioni artistiche».

È in questa temperie storica, culturale ed artistica, che cerca di ricollocare tutta una serie di valori dopo lo sconvolgimento bellico, che si inserisce il giovane Passani. La sua formazione accademica, legata ai canoni della tradizione, in un primo momento lo fa sentire fuori posto e fuori tempo. Per tutti i giovani artisti suoi contemporanei, accettare certe novità che pure arrivano e si propongono con la forza di un’onda che si infrange sulla riva, non è facile. Tuttavia, a poco a poco, proprio i giovani si entusiasmano di fronte a queste nuove tendenze e le fanno proprie.

Dipingere non è facile sottolinea Passani; «quello del pittore è considerato un mestiere nobile, ma certo l’artista deve fare i conti anche con la realtà che lo circonda, con la vita quotidiana, legata a tanti aspetti e condizionata da tanti fattori. Accade così che il pittore, se dotato di particolari sensibilità magari un po’ fuori dal comune, può creare un qualcosa di diverso, di originale e di veramente personale».

L’arte come professione, è alimentata da varie componenti; una dose di dedizione, una dose di cultura, una dose di ragionamento, una dose di sacrificio. In quanto professione, diventa impegno costante, sia pure sublimato da momenti di coinvolgente ispirazione; rimane portatrice di una tensione emotiva che non abbandona mai l'artista. Seppure questi viene a volte gratificato da risultati “soddisfacenti”, nella vita, solo sporadicamente riesce ad allentare questo “fuoco creativo” interiore, che lo pervade e lo tiene in perpetuo stato di tensione emotiva.

L’artista tuttavia, secondo Passani, non può essere solo ispirazione e sentimento. «Deve darsi delle regole personali. Dopo che ha acquisito, grazie allo studio tutta quella cultura che l'ha preceduto, deve trovare la forza di cercare una sua via individuale; un suo modo di esprimersi, dando a tutto ciò che realizza, una interpretazione assolutamente originale».

Sempre secondo il pensiero di Passani: «È semplicistico dire che Morandi ha fatto solo bottiglie, io contesto – ribadisce - la concezione di qualche critico che, in modo estremamente riduttivo, si lascia andare alla considerazione che quando hai visto un dipinto di Morandi li ha visti tutti. Non è vero – si riscalda – Passani – e qui sta la particolarità e la difficoltà dell’arte. Perché Morandi fa la bottiglia e la fa con un colore così diverso dalla realtà. Così personale che tu non puoi generalizzare; anche se l’artista fa dieci quadri di bottiglie, sono dieci quadri diversi, con dieci spunti emozionali diversi. L'arte è tale se il soggetto riprodotto, fosse pure l'oggetto più modesto, riesce nella sua rappresentazione a trasmettere all'osservatore, lo stato emotivo dell'artista».

Passani continuando sull'argomento dice: «Prendiamo, ad esempio, un toscano, Ardengo Soffici, anche a lui alcuni critici hanno rivolto la stessa accusa di ripetersi in continuazione, ma non è vero. Osservando con attenzione i paesaggi che ci ha lasciato, non possiamo classificarlo né verista né impressionista, ma piuttosto espressionista. Il paesaggio che, per così dire si ripete, è in realtà sempre diverso; il pittore sminuzza i colori, li scompone e li ricompone a seconda della sua sensibilità e del suo animo, dando ad ogni opera una sempre diversa collocazione.».

Dei pittori citati, insieme a molti altri, Passani dice: «Hanno dato un notevole contributo all'evoluzione artistica del loro tempo e hanno lasciato un’eredità di tutto rispetto. Ve ne sono poi altri definibili di rottura; la critica ha esaltato le loro opere fino all'inverosimile, spingendosi nel caso di artisti dirompenti a critiche scandalose e fuori da ogni logica, proponendo come capolavori le loro “dubbie realizzazioni”. Passani non ammette certi eccessi nell’arte, pur amando il nuovo e la sperimentazione, non taglia mai i suoi legami col classico, anche se, sottolinea: «Le nuove esperienze nell’arte consentono di guardare  al passato con occhi nuovi e mente più aperta, grazie agli stimoli diversi ricevuti».

A differenza degli artisti citati in precedenza; Morandi, Soffici ed altri, dove esiste una certa analogia fra le varie opere, in posizione opposta, alcuni tendono a colpevolizzare il pittore quando questi, non segue un unico filone e non ha una facile riconoscibilità, come se la continuità stilistica fosse per così dire, un valore aggiunto per comprendere o catalogare un artista. Passani non è d’accordo, in arte niente è classificabile con totale certezza e la storia ce lo insegna abbondantemente. Perciò si risulta quasi ovvio come non esista un unico “stile Passani”. Come si evince dalla sua vasta produzione, egli non si è mai allineato ad un solo percorso artistico; intessendo sempre collegamenti fra un periodo e l'altro, ha esplorato ogni itinerario di ricerca. La molteplicità delle tecniche impiegate e i vari coinvolgimenti della vita, hanno dato sfogo, motivo e giustificazione a cambiamenti e reinterpretazioni anche degli stessi soggetti pittorici. L'ispirazione segue gli stati d'animo e la condizione anche fisica dell'artista, la modificazione dell'età, le esperienze vissute, desiderate o temute.

Ha sempre prodotto in totale libertà, sottolinea con orgoglio e con forza, lasciandosi guidare, sempre e comunque dall'istinto, dall'ispirazione, dall'evoluzione stilistica e culturale. Non si è mai preoccupato di sapere se il “mercato” era pronto a recepire quello che stava facendo. Se a volte ha sentito che stava anticipando i tempi, ha sempre avuto la consapevolezza che un passo avanti, ti permette di vedere prima quello che sta per accadere. La vendita del quadro è sempre stato l'ultimo dei suoi pensieri e oggi, alla verde età di 87 anni, nulla è cambiato. È ancora fermamente convinto (e come dargli torto?) che l’elemento più importante resti sempre la sensibilità dell’artista al di sopra di ogni cosa; lo stato d’animo e l'emozione del momento devono riflettersi  nell’opera che l’artista realizza.

Passani negli anni 1952-53, parallelamente al maturarsi della personalità artistica, dette inizio al suo impegno di docente. Per lui è stato un modo diverso per trasmettere, come fa con la pittura, ciò che con tanta irruenza sente dentro di sé. Si potrebbe dire che in Passani la pittura ha una sua dimensione pedagogica e l’insegnamento, nel corso della sua carriera, ha assunto un che di squisitamente artistico, ed entrambe le situazioni hanno trovato linfa e sostegno nel suo carattere ottimista  rivolto al futuro.

Le vicende della cultura e dell’arte di quegli anni nei quali si viene sviluppando la vicenda artistica, professionale e personale di Passani, con la sempre più forte ed esigente presenza del mondo giovanile, tendono ad affermare una realtà che si pone come depositaria di istanze e di bisogni nuovi. In campo artistico le novità proposte dall’arte informale, dall’espressionismo astratto e figurativo, furono portatrici di pulsioni verso percorsi nuovi.

Gualtiero Passani ne è fortemente sollecitato, sia per quanto riguarda i parametri delle valutazioni teoriche sull’arte, sia per quanto riguarda la verifica operativa. Il tutto si esprime nel bisogno di trasmettere agli altri, soprattutto ai giovani, i frutti e gli ammaestramenti di una tale modificazione culturale.

L’approccio con gli studenti è sempre stato positivo, sempre forte la sintonia di questi col Maestro; tenuto in alta considerazione non solo dagli studenti, ma anche dai colleghi. Tutti ne hanno costantemente apprezzato la competenza, la preparazione e la carica di entusiasmo che egli metteva nella sua attività di docente. L’insegnamento per lui è sempre stato, in fondo, un modo per riaffermare la sua convinzione riguardo al disegnare. Dice Passani: «Il pittore vero deve saper disegnare bene e solo quando acquisisce certe capacità, può osare, trasformare e personalizzare il soggetto facendone una cosa sua».

Il lirismo dinamico di Passani rende del tutto particolare ed originale la sua pittura, attraverso la costante ricerca dei vari cromatismi e forme, con l'impegno profuso e costante nello scandagliare gli stati d'animo dei suoi personaggi e farne venire alla luce gli stati d’animo per mezzo di una sorta di originale maieutica, sostenuta dal personalissimo uso del colore, che l’artista riesce sempre a governare con poliedrica maestria e con impeto emozionale.

Esiste una consapevolezza tutta particolare nella pittura di Passani; la continua ricerca, lo studio e la quotidiana sperimentazione, non disgiunte da un innato talento, hanno fatto di lui un'artista completo, meritevole di collocarsi tra le figure di spicco dell’arte contemporanea.

Nel percorso artistico di Passani vi è la sintesi di tutta la cultura pittorica del Novecento che egli riesce a metabolizzare con pacata, rispettosa e personale interpretazione. In definitiva qualunque materia tratti, qualunque tecnica adoperi, qualunque sia il soggetto del quadro, Passani riesce ad infondere nelle sue opere particolarissimi accenti; in cui ogni residuo di scuola, ogni influsso esterno, si dissolvono per ricomporsi poi in una personale rielaborazione delle forme e delle immagini, dando spessore ed originalità ad ogni opera.

Vicende ed esperienze di vita.

Elio Bertini